Per un’antropologia nell’epoca del Coronavirus
“Noi siamo della stessa stoffa
di cui sono fatti i sogni,
e la nostra breve vita
è avvolta da un lungo sonno”
Shakespeare, La Tempesta, Atto IV, scena I
Quante volte, durante la mia degenza prima al San Raffaele di Milano e poi all’Istituto Zucchi di Carate Brianza, ho udito risuonare dentro di me le parole di Prospero, il mago della Tempesta shakespeariana. Mai come in quei giorni ho sperimentato la verità dell’intuizione del grande drammaturgo inglese: la natura umana è davvero impalpabile ed incerta come quella dei sogni. Dire che siamo della stessa stoffa dei sogni significa infatti affermare che la nostra natura è effimera, ma anche magica: come la stoffa anche noi siamo nati dal nulla, da una tessitura di fili, da una trama invisibile che, a poco a poco, ordisce il tessuto della nostra esistenza che va certo acquisendo una sua fisionomia, ma non solidità. Ed è così che ci muoviamo leggeri sulla scena del mondo e ciò che muove e ci anima è un mistero celato dentro quel magico ed effimero tessuto.
Tutto è iniziato intorno al 20 febbraio 21 quando, dopo alcuni giorni di febbre persistente e dopo aver appreso della positività al virus di mia sorella, ho chiamato l’ambulanza per essere trasferito al Pronto Soccorso di Lodi al fine di essere sottoposto a tampone. Al termine della visita medica, nonostante la febbre, venivo ricondotto a casa con un’ambulanza su cui sedeva, al mio fianco, un altro malato risultato affetto da Coronavirus. I tre giorni successivi li ho trascorsi nella mia abitazione, da solo, con febbre molto alta, dolori di stomaco, inappetenza e una spossatezza mai provata a cui si accompagnava uno stato d’ansia legato alla situazione, Nei giorni successivi la febbre, nonostante gli antipiretici prescritti, aumenta fino a raggiungere i 39 e poi addirittura i 40 gradi. Sempre più prostrato, a quel punto decido di telefonare al numero apposito istituito dalla Regione Lombardia e, nel cuore della notte del 28 febbraio, un’ambulanza mi conduce al Pronto Soccorso di Cremona. Per la terapia neuromotoria e per “essere rimesso in piedi” dopo aver perso ben quindici chili in un mese, eseguiti i due tamponi con esito negativo, verrò trasferito all’Istituto Zucchi di Carate Brianza da dove sarò finalmente dimesso per ritornare al mio domicilio il 29 aprile: “home, sweet home…”.
Ripensando, nella quiete di casa, a questa mia dolorosa esperienza, devo riconoscere che la vicenda per certi versi drammatica che mi è capitato di vivere ha conosciuto, accanto a una dose rilevante di sofferenza e angoscia per me e per i miei cari, autentiche oasi di luce e di gioia. Ciò è avvenuto all’Ospedale San Raffaele grazie all’elevata professionalità dei medici e degli infermieri che si sono occupati instancabilmente di me, fino al punto di ricondurre alla vita questo mio corpo aggredito dal virus terribile che lo stava distruggendo. A loro va il mio ringraziamento più sincero e commosso in nome della Vita, della mia vita e della profonda comunione che lega gli esseri viventi.
Un’altra oasi di luce è stata per me l’Istituto Zucchi di Carate Brianza. Anche qui ho avuto la fortuna di incontrare dottoresse, e poi fisioterapisti, infermieri, personale ausiliario di grande professionalità e – qualità rarissima – di immensa umanità. Li ho visti sobbarcarsi ogni genere di fatiche e lavori assolutamente non piacevoli con grande disponibilità e un’incredibile serenità nei loro volti e nei loro gesti. Anche a loro va tutta la mia infinita gratitudine, non solo per ciò che hanno fatto per la mia persona, per la mia guarigione, ma anche per l’autentica lezione di vita che mi hanno impartito giorno dopo giorno con il loro comportamento: GRAZIE!!! Tornando alla mia attuale condizione di convalescenza, segnata dall’infinita spossatezza prodotta dal Coronavirus, devo riconoscere che sovente mi sorprendo ad inseguire le riflessioni che mi hanno accompagnato durante la fase più buia e difficile della malattia.
Daniele Bonelli
Docente di Filosofia, Piacenza